Viviamo un’epidemia, una pandemia o una tragedia? Difficile sfumare, specie laddove molti commentatori utilizzano le tre parole come se fossero intercambiabili.
Tra le prime due la cosa è piuttosto semplice: il giorno in cui l’epidemia è diventata pandemia si è inteso con ciò che l’estensione del virus era divenuta mondiale, e che esso riguardava ormai tutti. Le parole della medicina e della scienza, comunque, non bastano a conferire spessore umano a un evento: donde l’entrata in scena della tragedia. Fra epidemia e pandemia c’è una variazione di scala; tra pandemia e tragedia c’è un cambiamento di natura. Si lascia il laboratorio per la ribalta teatrale, il quanto per il perché, il quadro statistico per il poema. Una pandemia resta terra terra, mentre una tragedia costeggia il divino.
Quando il direttore dell’OMS afferma che «i vaccini offrono la soluzione per uscire finalmente da questa tragedia» ci sembra che egli confonda i piani, in ciò che non è soltanto una questione di vocabolario. La parola “tragedia” potrebbe inquietare, tanto ci sembra pacifico che ogni tragedia è una situazione con esito fatale. Al contrario, la parola “vaccino” dovrebbe rassicurare, poiché offre una soluzione a portata di mano. Eppure sicuramente la cosa più inquietante non è che stiamo vivendo una tragedia, ma che siamo cittadini di un mondo convinto che basti un vaccino a porvi termine.
Nessuno negherà che non sia piacevole, per un personaggio, trovarsi nel cuore di una crisi tragica. Nondimeno si è dimenticato un po’ troppo spesso, dal XIX secolo in poi, che una tragedia finisce spesso bene per la comunità a cui i personaggi appartengono.
Solo una visione deformata dai secoli può fare della parola “tragedia” un semplice sinonimo di “catastrofe”. Il proprium di uno scioglimento tragico, infatti, è di far progredire il bene comune. La comunità, benché segnata dalle morti, ne viene fuori un po’ più giusta di quanto non fosse al principio.
È così nell’Atene di Eschilo, riferendosi alla quale Jacqueline de Romilly coniò la sintetica nozione di “tragedia della giustizia divina”. Prendete l’Orestiade, trilogia teatrale che mette in scena il ritorno di Agamennone dalla guerra di Troia. In un certo senso, ci troviamo di fronte a un mero massacro: Clitennestra uccide il marito per vendicare la figlia Ifigenia, poi Elettra e Oreste vendicano a loro volta il padre ucciso uccidendo Clitennestra. Una famigliola discretamente disfunzionale… Eppure nell’ultima scena la logica del sangue termina e al posto della vendetta s’instaura la giustizia. Diciamo un lieto fine.
Prendete poi, dello stesso Eschilo, il ciclo di Prometeo. Stando ai moderni, Prometeo sarebbe la figura definitiva della rivolta contro gli dèi. Nello snodo della trilogia, tuttavia, Zeus e Prometeo si riconciliano e la giustizia divina perde la sua violenza arcaica. La tragedia, ancora una volta, porta agli uomini qualcosa di buono.
Saltiamo i secoli e diamo un’occhiata alla Tragedia di Amleto di Shakspeare, che il XIX secolo ci ha abituati a chiamare semplicemente “Amleto”, incentrandone la lettura sul destino del personaggio principale. In nome di un romanticismo centrato sul to be or not to be dell’eroe e su uno star system ante litteram, le rappresentazioni del XIX secolo tagliavano gli ultimi cinquanta versi perché le ultime parole fossero quelle di Amleto morente. Invece è il corteo funebre che segue ciò che riunifica la comunità! Sul corpo di Amleto la città esce dal disordine e la corona del Regno ritrova legittimità. Non parliamo poi di Romeo e Giulietta che, lungi dall’essere un’esaltazione di amori adolescenti, si chiude su una città di Verona finalmente liberata dalle sue contese fra clan.
E in Racine? Dopo le morti di sua moglie Fedra e di suo figlio Ippolito, il re Teseo adotta nell’ultimo verso la figlia dei suoi peggiori nemici politici, ponendo fine alle antiche lotte di successione. Anche Bérénice, considerata da alcuni una delle rare tragedie pure – nel senso che non vi si ravviserebbe il superamento finale della crisi – termina su una buona notizia per il mondo: rimandando quella che amava per sottomettersi a leggi superiori (equivalente romano delle leggi fondamentali del regno di Francia), Tito diventa un monarca degno di questo nome e non un tiranno capriccioso che seguirebbe le sue voglie. Una buona notizia per tutti.
Giraudoux riassunse bene la ricchezza comunitaria della tragedia con le ultime parole famose della sua Elettra:
Non è dunque eccessivo dire che le storie tragiche finiscono bene, in generale. Il vantaggio di una tragedia su un’epidemia è che i morti non muoiono senza ragione, perché gli eventi finiscono con l’avere un senso: lo scioglimento finale non lascia la comunità al medesimo punto di partenza; esso non consiste in una mera conta dei morti, ma nel rendere loro omaggio, nell’integrarne la memoria in una narrazione e nel tentativo di trarre una lezione dagli eventi.
Tutto questo un vaccino non potrà offrirlo mai: un vaccino può essere efficace per uscire da una pandemia. Non bisogna contare su di esso per ottenere uno scioglimento che sia anche solo minimamente fecondo. Ecco perché sarebbe mille volte meglio vivere senza vaccino in un mondo tragico che trascorrere la vita, vaccinati, in un mondo insignificante o assurdo.
«Ogni uomo che gioisce di un racconto confessa di non aver perduto fede nella Provvidenza», scrisse Olivier Py in uno dei suoi aforismi più belli. Ogni uomo che può vivere una crisi come una tragedia postula, allo stesso modo, uno scioglimento che non è né un finale nero né un ritorno alla casella di partenza, ma che rivela un senso nelle due accezioni del termine – una direzione e un significato.
A che serve vaccinarsi, se dobbiamo continuare a errare o a divertirmi [parole che sono cugine etimologiche] su una strada che non va da nessuna parte? Speriamo allora – speriamolo! – che questa epidemia diventi una tragedia!
[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio]