Le sue compagne di prigionia nel campo di concentramento la chiamavano “angelo di bontà”. La beata Julia Rodzińska è morta nel campo di concentramento di Stutthof a 46 anni. È tra i 108 martiri morti durante la II Guerra Mondiale beatificati da Papa Giovanni Paolo II nel 1999, ed è stata la prima Domenicana ad essere stata elevata all'onore degli altari.
Nel campo di concentramento, suor Julia ha condiviso letteralmente tutto, anche il poco pane a disposizione, con gli altri reclusi. È stato con una fetta di pane che ha realizzato il suo rosario. Traeva forza e speranza dalla recita del Rosario. Prigioniere di varie nazionalità andavano da lei per ritrovare la forza nella preghiera.
Da bambina, dopo la morte dei genitori, venne accolta dalle Domenicane di un convento vicino, e poi studiò Magistero.
A 17 anni decise però di abbandonare gli studi ed entrò nella Congregazione delle Suore Domenicane. Vestì l'abito bianco e assunse il nuovo nome di Maria Julia. Venne mandata a Cracovia (Polonia), dove proseguì gli studi, e dopo aver superato l'esame di abilitazione ottenne il certificato di insegnante.
Era particolarmente affettuosa nei confronti degli orfani, preoccupandosi dei loro abiti e che venissero istruiti. Si prendeva cura dei bambini più poveri e lavorava in un orfanotrofio.
Quando l'esercito sovietico invase Vilnius nella guerra polacco-sovietica, la situazione delle religiose peggiorò drammaticamente. Nel settembre 1920, le Domenicane vennero rimosse dal loro lavoro, e con il permesso delle autorità ecclesiali passarono a indossare abiti laici. Suor Julia insegnò clandestinamente anche durante l'occupazione tedesca, fino all'arresto nel 1943.
La religiosa venne arrestata e torturata a Łukiszki, ma nonostante questo non abbandonò la sua fede e i valori fondamentali. Venne tenuta per un anno in una cella di isolamento, e poi spedita con altri prigionieri al campo di concentramento di Stutthof.
Da allora, suor Julia divenne la prigioniera numero 40992. Le condizioni di vita del campo erano difficili: sporcizia, vermi, accesso limitato all'acqua potabile, poco cibo distribuito in condizioni estremamente precarie. Lei, però, non perse la speranza, ed era un punto di riferimento per le altre prigioniere.
Un giorno seppe che un prigioniero stava progettando il suicidio nel campo annesso, e allora iniziò a inviargli messaggi segreti perché le assicurasse che non si sarebbe ucciso. In seguito, l'uomo ammise che fu grazie a suor Julia che riuscì a sopravvivere all'inferno del campo.
Un'altra sopravvissuta, Ewa Hoff, ha ricordato con emozione un episodio in particolare: “Mi ha toccato con delicatezza, come solo una madre può svegliare un bambino: 'Ho un po' di zuppa per te, e vorrei che la mangiassi finché è ancora calda'”.
Quando un'epidemia di tifo scoppiò nel campo nel 1944, le autorità isolarono il blocco degli ebrei. Il progetto era che morissero tutti. I prigionieri evitavano il “blocco della morte”, ma non suor Julia, che vi andava per consegnare acqua e medicinali.
Continuò ad aiutare anche dopo aver contratto il tifo. Alcuni testimoni hanno affermato che “ha portato la misericordia in condizioni in cui l'esistenza stessa della misericordia era stata dimenticata”. È morta da martire.
Una delle detenute coprì il corpo nudo di suor Julia, gettato su altri corpi per essere bruciato. Lasciò sul suo un pezzo di stoffa a righe, come modo per esprimere gratitudine e rispetto per la sua vita di sacrificio per gli altri.
Durante la Messa per il 20º anniversario della sua beatificazione, padre Piotr Ciuba OP, priore del priorato domenicano a Cracovia, ha osservato: “Era un angelo nell'abisso del male, offrendo aiuto ai sofferenti. È la prova del fatto che il bene può fiorire anche laddove sembra che il male si sia ormai radicato”.
I sopravvissuti al campo nazista la ricordano come “una suora inginocchiata su una tavola di legno, con schiena dritta e testa alta, gli occhi fissi sull'Eternità”.