separateurCreated with Sketch.

Chi dirige la Chiesa cattolica quando il Papa non è più capace?

SYNOD
whatsappfacebooktwitter-xemailnative
Camille Dalmas - pubblicato il 31/08/21
whatsappfacebooktwitter-xemailnative
In Francia, se il Presidente della Repubblica diventa inabile a esercitare il potere, l’autorità viene affidata al Presidente del Senato. E per la Santa Sede come funziona? Papa Francesco si è rimesso serenamente da un’operazione al colon, ma cosa si fa quando il Papa non ha più la forza di gestire il proprio ufficio?

Operato domenica 4 luglio 2021 per un’infiammazione del colon, papa Francesco ha ormai terminato la sua convalescenza al Policlinico Gemelli: si è rimesso serenamente ed è tornato al lavoro con la consueta energia. Che si fa, invece, quando il Santo Padre non è più in grado di esercitare la sua autorità? 

Quando un papa muore, dal punto di vista canonico il quadro è chiarissimo: il potere viene affidato, per il periodo di vacanza, al cardinale camerlengo. Quest’ultimo, previamente scelto dallo stesso pontefice, assume allora l’incarico degli affari ordinari della Santa Sede fino all’elezione del nuovo papa. Se oggi papa Francesco dovesse morire sarebbe il cardinale americano Kevin Farrell, attuale camerlengo, a tenere per qualche giorno le redini del più piccolo stato al mondo. 

Il diritto canonico, però, non prevede tutto: esiste una zona grigia, a partire dal momento in cui un papa entra in ospedale. In casi come quello dello scorso mese, in cui il pontefice è pienamente compos sui, la questione del governo non si pone e nulla cambia. «Il Papa resta il Papa anche in ospedale», sintetizza un canonista che ha lavorato sulla questione ai più alti livelli (e che chiede di restare anonimo). 

Che cosa accadrebbe, invece, nel caso in cui un pontefice si ritrovasse (per esempio) in coma o soffrisse di un male che lo rendesse cronicamente inabile al governo? Che fare se il Papa diventasse fisicamente o mentalmente incapace di governare, ma anche di rinunciare al governo? Il Papa «è il solo a poter liberamente rinunciare al proprio potere» – precisa il canonista. 

Come ha ricordato il sito America, gestito dai Gesuiti, il diritto canonico prevede un motivo di “impedimento” per i vescovi, per il quale si potrebbe ritirare la loro responsabilità diocesana in caso di «cattività, bando, esilio o incapacità». È allora il vescovo ausiliario, o il vicario generale, che prende la testa della diocesi in attesa della nomina di un successore. Se si applicasse questo canone al caso del papa, considerando che egli è vescovo di Roma, sarebbe il suo vicario per la diocesi, il cardinale Angelo De Donatis, a dover raccogliere il testimone. 

E tuttavia, il vescovo di Roma non è un vescovo come tutti gli altri, come indica il canone 335: esso prevede il caso in cui la Santa Sede si trovi «vacante o interamente impedita». Nonostante ciò, in una siffatta situazione, «niente di nuovo deve essere intrapreso nel governo della Chiesa universale» durante questo periodo. 

La questione dell’incapacità di governare di un papa è di fatto una vera “lacuna” nel diritto canonico, riconosce il canonista: 

Risultato: ove se ne presentasse il caso, il giurista dovrebbe “interpretare” i rari elementi esistenti al fine di trovare una soluzione. 

Questa aporia ha imbarazzato diversi predecessori di papa Francesco, in particolare quelli a partire dalla Seconda Guerra Mondiale – la ragione principale è l’aumento significativo della durata della loro vita per via dei progressi effettuati dalle arti mediche negli ultimi decenni. E tuttavia l’incapacità medica non è stata l’unica eventualità considerata dai pontefici. 

Indubbiamente ricordandosi dei drammatici rapimenti dei papi Pio VI e Pio VII a seguito della Rivoluzione francese, Pio XII considerò la questione dell’impossibilità a governare. Rinchiuso in Vaticano durante la Seconda guerra mondiale, il pontefice aveva seriamente considerato il rischio che correva per via della minaccia nazista. 

Secondo il suo Segretario di Stato, il cardinal Domenico Tardini, il Papa avrebbe posto in essere delle precise contromisure nel caso in cui il Terzo Reich fosse intervenuto a prenderlo direttamente. In particolare, avrebbe preparato una lettera nella quale dichiarava le sue dimissioni, dando istruzioni perché i cardinali eleggessero il suo successore: «Se mi rapiscono – avrebbe affermato il Papa – porteranno via il cardinal Pacelli, non il Papa». 

Le precauzioni di Pio XII erano lungi dall’essere superflue: difatti quando Mussolini, sotto la pressione degli Alleati, fu rovesciato dalla popolazione italiana, nel 1943, i Tedeschi progettarono per qualche tempo un piano di rappresaglia per rapire e assassinare il capo della Chiesa cattolica. 

Lo storico Roberto Rusconi riporta che la questione dell’incapacità è stata considerata anche dal suo successore, Giovanni XXIII. Il Papa Buono si era interrogato, durante il suo pontificato, sulla possibilità di rinunciare per via del suo precario stato di salute, soverchiato dal grave carico del Concilio Vaticano II. 

Il papa successivo, Paolo VI, aveva da parte sua scartato pubblicamente la possibilità di una rinuncia. E tuttavia, nel 1965 scrisse diverse lettere al decano del Collegio cardinalizio nelle quali evocava la possibilità, nel caso in cui si fosse trovato in coma o colpito da demenza, di poter essere impedito e sostituito, dopo un nuovo conclave, da un altro papa. 

Queste lettere, tuttavia, non hanno valore canonico/legale, anche se fanno parte del “magistero informale” dell’anziano pontefice – spiega il canonista. La corrispondenza, rinvenuta parecchio dopo la sua morte, non permette di pensare che essa avrebbe effettivamente innescato una fase di vacanza se il papa di Concesio si fosse trovato in una situazione di incapacità. 

Il papa più tormentato da questa possibilità fu Benedetto XVI. Nel 2005, il pontefice tedesco uscì profondamente segnato dalla lunga agonia di Giovanni Paolo II, che ha progressivamente riempito gli ultimi anni del suo pontificato. Vicinissimo al vertice del potere, il cardinal Ratzinger era stato testimone del periodo di instabilità, soprattutto dal punto di vista del governo della Chiesa, e questo lo spinse a immaginare delle risposte. 

Egli avrebbe chiesto al cardinale Julian Herranz, allora presidente del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, di redigere un canone per colmare il vuoto giuridico. Cosa che fu fatta: il canone prevedeva che l’impedimento potesse essere deciso dal Collegio cardinalizio su convocazione del suo decano. Secondo questo progetto, al termine di un’inchiesta e soprattutto di una consultazione di esperti medici, i cardinali sarebbero in diritto di mettere solennemente fine al pontificato e aprire il tradizionale periodo di vacanza del potere in vista di un conclave. 

Il canone, tuttavia, benché presentato, all’epoca, al capo visibile della Chiesa cattolica, non è stato mai promulgato. Benedetto XVI, da parte sua, non ne ha avuto bisogno: ha trovato per sé un’altra risposta alla questione che lo tormentava. 

Temendo di essere incapace di governare, per via dell’infragilimento della salute, il 265º Papa ha finalmente deciso, nella meraviglia generale, di rinunciare preventivamente al ministero petrino – era il 2013. 

Sempre in vita otto anni dopo, egli ha recentemente confidato che non immaginava di vivere ancora tanto a lungo. In un’intervista recente col suo biografo Peter Seewald, Benedetto XVI ha confermato che sarebbe stata proprio la questione della sua salute – in particolare della sua incapacità a effettuare lunghi viaggi, a cominciare dalla GMG prevista in Brasile nell’estate del 2013 – che l’aveva determinato nel mettere fine al suo pontificato. 

La “rinuncia preventiva” di Benedetto XVI è un modo per aggirare l’aporia giuridica rappresentata dal caso di incapacità del pontefice. Il vuoto normativo resta tale, conferma il professore di diritto canonico. «Se mai si producesse una tale situazione – conclude –, saremmo in terra ignota». 

[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio] 

Top 10
See More