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Un poeta dei campi di concentramento ispira Papa Francesco

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Kathleen Hattrup - pubblicato il 21/09/21
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Le nostre voci devono richiamare speranza e pace, dice il Papa, anche se nessuno ascolta

Nei suoi discorsi, Papa Francesco, una volta professore di letteratura, fa spesso riferimento a grandi poeti o scrittori. Soprattutto quando compie una visita apostolica o parla a un Paese particolare, ama attingere ai grandi scrittori che hanno formato la cultura locale.

Nel suo viaggio a Budapest il 12 settembre, rivolgendosi ai rappresentanti del Consiglio Ecumenico delle Chiese e ai membri di alcune comunità ebraiche dell'Ungheria, ha richiamato ancora una volta le lezioni della poesia, parlando di “tante figure di amici di Dio che hanno irradiato la sua luce nelle notti del mondo”.

In questo caso, si è riferito a “Miklós Radnóti, la cui brillante carriera fu spezzata dall’odio accecato di chi, solo perché era di origini ebraiche, prima gli impedì di insegnare e poi lo sottrasse alla famiglia”.

Mentre era imprigionato in un campo di concentramento – in quello che il Pontefice ha definito “l’abisso più oscuro e depravato dell’umanità” -, il poeta ha continuato a scrivere poesie. Solo una raccolta delle sue opere, il Taccuino di Bor, è sopravvissuta alla Shoah, e “testimonia la forza di credere al calore dell’amore nel gelo del lager e di illuminare il buio dell’odio con la luce della fede. L’autore, soffocato dalle catene che gli stringevano l’anima, trovò in una libertà superiore il coraggio di scrivere: «Prigioniero, ho preso la misura a ogni speranza» (Taccuino di Bor, Lettera alla moglie). E pose una domanda, che risuona anche per noi oggi: «E tu, come vivi? Trova eco la tua voce in questo tempo?» (Taccuino di Bor, Prima Ecloga)”.

“Le nostre voci, cari fratelli, non possono che farsi eco di quella Parola che il Cielo ci ha donato, eco di speranza e di pace. E se anche non veniamo ascoltati o siamo incompresi, non smentiamo mai con i fatti la Rivelazione di cui siamo testimoni”.

Il Papa ha proseguito citando l'opera di Radnóti, che ha scritto: “«Sono anch’io una radice adesso… Ero fiore, sono diventato radice» (Taccuino di Bor, Radice)”.

“Anche noi siamo chiamati a diventare radici. Spesso cerchiamo i frutti, i risultati, l’affermazione. Ma Colui che fa fruttare la sua Parola in terra con la stessa dolcezza della pioggia che fa germogliare il campo (cfr Is 55,10), ci ricorda che i nostri cammini di fede sono semi: semi che si trasformano in radici sotterranee, radici che alimentano la memoria e fanno germogliare l’avvenire. È questo che il Dio dei nostri padri ci chiede, perché – come scriveva un altro poeta – «Dio aspetta da un’altra parte, aspetta proprio al fondo di tutto. Giù. Dove ci sono le radici» (R.M. Rilke, Wladimir, il pittore di nuvole)”.

Il Pontefice ha esortato a formare queste radici “nell’ascolto dell’Altissimo e degli altri”, per “giungere in alto” e diventare “radici di pace e germogli di unità”, essendo così credibili agli occhi del mondo.

Il Santo Padre, che compirà 85 anni a dicembre, ha quindi concluso il suo discorso scusandosi dicendo: “Scusate se ho parlato seduto, ma non ho 15 anni. Grazie

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