Potrebbe essere una metonimia: anche se non molto utilizzata, in generale è nota l’espressione “battersi il petto”. In francese anzi si dice “battersi la colpa”, per l’assonanza tra il francese “faute” e il latino “culpa”, e l’espressione dice bene l’intenzione di chi riconosce la propria colpa, anche se non si batte il petto. Sapete che questa espressione è di origine liturgica?
Nel messale le rubriche (quelle intenzioni sui gesti da osservare) indicano che dicendo le parole “per mia colpa” nel mezzo del “Confesso a Dio onnipotente…” ci si batte il petto. E anzi, nell’editio typica (la versione originale, e normativa, in latino) lo si prescrive per te volte mentre si dice “mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa”.
Un gesto già presente nell’Antico Testamento
Lo si trova nei libri profetici, ad esempio in Geremia: «Sì, mi pento […], mi batto il petto» (Ger 31,19). Il significato di questo rito è semplice: si tratta di sottolineare la contrizione. Il riconoscimento delle nostre colpe, espresso nelle parole, si traduce anche nel linguaggio del corpo, perché la liturgia ricerca incessantemente l’armonia tra il corpo e il cuore, il quale è inteso come sede delle intenzioni dell’uomo – buone e cattive.
Per noi stessi, battersi il petto è dunque un modo per accordare la nostra parola ai nostri atti. Per gli altri, però, è anche una forma di accusa davanti alla comunità: «Sono veramente io che ho peccato!». Il che ricorda che il peccato è (anche) un atto sociale che spezza la comunione, perfino se non si trattasse d’altro che di “cattivi pensieri”…
Anche se la cosa non è più menzionata nel messale sortito dalla riforma seguita al Vaticano II, è tuttavia rimasta la consuetudine di battersi il petto durante l’Agnus Dei. Quando si canta “abbi pietà di noi” alcuni tornano a battersi il petto, esprimendo ancora quella medesima volontà di riconoscersi peccatori davanti al Padre di misericordia. E si torna(va) a farlo ancora alla fine del terzo responsorio: «Dacci la pace».
Penitenza e apertura alla grazia di Dio
Eppure, in quest’ultimo caso non sarà forse un altro significato a essere in gioco? Lo si trova forse riassunto in questa parola neotestamentaria: «Se qualcuno ascolta la mia voce e apre la porta, io entrerò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20). Battersi il petto è qui un modo di mostrare che apriamo la porta del nostro cuore a Colui che viene a visitarci.
Le due idee, quella della penitenza e quella dell’apertura alla grazia di Dio, sono presenti quando ci battiamo il petto a messa. Anche se l’attuale messale non lo precisa, l’uso più corrente è quello di farlo quando si dice “O Signore, non sono degno di partecipare alla tua mensa, ma di’ soltanto una parola e io sarò salvato”. Anche qui veniamo al Padre, da indegne creature che se ne sono allontanate, pregandolo di venire tra noi col suo Corpo realmente presente nell’ostia che ci apprestiamo a ricevere, per fare dei nostri cuori la sua dimora.
[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio]