Colletto romano, clergyman, talare, tabarro… l’abito dei preti, pur senza diversificarsi molto, è sottoposto a una forma di moda. «Di chi spesso è solito veste mutare, se non sei pazzo non ti devi fidare» – avrebbe detto Francesco I davanti a una diversità che è quasi sempre esistita anche in seguito al Vaticano II, negli anni 1960, si è accentuata.
Prima del XVII secolo, se la necessità di un abito ecclesiastico distintivo è stata più volte ribadita nei concili, generali o particolari, o nelle diocesi, la forma che esso prende non è stata uniforme – se non per il colore. Il nero, segno di povertà e di morte a sé stessi, è il richiamo (per il prete e per chi lo incontra), del dono della sua vita alla Chiesa. La veste talare, abito lungo da principio portato dai chierici durante le liturgie, divenne in seguito l’abito proprio di preti, vescovi e cardinali, e del primo fra loro – il Papa, che da cinque secoli la porta bianca.
La veste talare, oggetto d’odio degli anticlericali dal XIX secolo in qua
A lungo la talare si è abbinata con un abito corto, che era un abito di corte a Versailles che ai preti serviva in città o durante i viaggi. In alcuni Paesi essa è divenuta il segno del clero e della Chiesa, e così dal XIX secolo la talare è oggetto di contesa da parte degli anticlericali. Anzitutto per motteggio, i preti erano apostrofati come “corvacci”. All’inizio dello scorso secolo alcuni comuni francesi, come il Kremlin-Bricêtre ad esempio, hanno letteralmente proibito di indossare questo abito oscurantista, simbolo di anti-repubblicanismo in sé.
La talare stessa, però, ha varie forme: cambia poi per numero e forma dei bottoni, che possono essere visibili o nascosti; le fasce possono essere alla francese o romane… e poi le cose si complicano quando si arriva al collo. In Francia c’è la tradizione propria del rabat, resa popolare dai Lasalliani, i discepoli di san Jean-Baptiste de La Salle, il fondatore dei Fratelli delle Scuole Cristiane. Ancora oggi, la loro veste di rappresentanza è una talare a rabat, come ai tempi del gallicanesimo. A Roma, invece, il collo nero lascia ben vedere il bianco, o soltanto davanti oppure tutto attorno al collo, con un’apertura evidente sul davanti.
Questa medesima varietà di colletti si trova pure sulle camicie che oggigiorno sono più comuni addosso ai preti. Tale forma d’abito, chiamata clergyman, una camicia col collo romano spesso abbinata a una classica giacca, ha colori che variano dal bianco al nero passando per molti grigi e molti blu (semplice questione di gusti), ed è un’eredità del mondo anglosassone.
Ripreso dagli anni 1950 per i preti che viaggiavano, autorizzati ad actum a disfarsi della talare (giudicata poco pratica), ben presto si generalizzò laddove il concilio Vaticano II sembrò incoraggiare un adattamento al mondo contemporaneo e una più evidente prossimità dei chierici alle loro porzioni di gregge.
Il 29 giugno 1962 il cardinal Feltin, arcivescovo di Parigi, autorizzò così i suoi preti a portare, in città (ma non in chiesa) un clergyman, che doveva aiutare a evangelizzare la società moderna, troppo lontana dalla tradizione simboleggiata dalla talare. Eppure la talare resta l’abito ordinario, la cui importanza è ancora descritta nel Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri, del 2013:
In ogni caso l’abito, ricorda il documento,
Il paragrafo sull’abito ecclesiastico si trova del resto – ed è tutto fuorché un dettaglio casuale – in una parte dedicata all’obbedienza, subito prima di quella riservata alla povertà, la quale resta espressa dal nero che veste i sacerdoti – i quali rivestono il bianco dell’alba e della risurrezione per la messa. Morti a loro stessi e viventi in Cristo.
[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio]