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«Sono lo stupito testimone della risurrezione dei bimbi di strada» 

PERE MATTHIEU DAUCHEZ

Padre Matthieu Dauchez, prete francese nella diocesi di Manila, che accoglie i bambini abbandonati

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Marzena Wilkanowicz-Devoud - pubblicato il 17/10/22
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Con la fondazione Anak-tnk, padre Matthieu Dauchez salva dall’inferno della strada bambini promessi alla droga, alla prostituzione, alla violenza e in ultimo alla morte. Di passaggio in Francia, il prete (che è francese anche se opera a Manila da 24 anni, nelle Filippine), risponde ad Aleteia.

Con la fondazione Anak-tnk, padre Matthieu Dauchez salva dall’inferno della strada bambini promessi alla droga, alla prostituzione, alla violenza e in ultimo alla morte. Di passaggio in Francia, il prete (che è francese anche se opera a Manila da 24 anni, nelle Filippine), risponde ad Aleteia. 

Padre Matthieu Dauchez ha disfatto i bagagli, ventiquattro anni fa, a Smokey Mountain, una bidonville a ridosso della discarica di Manila. Ordinato prete laggiù, dirige la fondazione Anak-tnk, che raccoglie bambini abbandonati (in 24 anni è venuta in aiuto a più di 60mila bimbi filippini). Lo abbiamo incontrato. 

Marzena Devoud: Giovane prete di Versailles, lei ha lasciato la Francia più di ventiquattro anni fa per andare a installarsi nel peggior quartiere di Manila, nelle Filippine. Che cosa è accaduto nella sua vita, per condurla a una simile scelta? 

Padre Matthieu Dauchez: La vocazione sacerdotale mi si è imposta tardivamente. Sentendo questa chiamata, sono entrato al seminario di Ars col desiderio di essere prete diocesano al servizio della diocesi di Versailles… Sono un tipo piuttosto domestico, non amo affatto muovermi! Eppure, il seminario è stato un momento di rottura, per me. Un carissimo amico partiva in missione all’estero. Mi ha detto: «Tu, che sei di Versailles, non ne sei capace!». Mi ha punto sul vivo. Gli ho detto, con altri due seminaristi: «E andiamo!». Come vede, non è stato per generosità o per inseguire un sogno: è stato l’orgoglio a farmi muovere. Di punto in bianco, in contatto con un prete gesuita, siamo partiti per le Filippine. L’opera Anak-Tkn è nata in quel momento. 

Molto presto, sul posto, mi sono reso conto che l’opera che voleva essere lì per aiutare i più poveri poteva farsi solo nella durata. Ci si occupava di bambini abbandonati, abusati: li raccoglievamo con tutta una fantastica équipe di Filippini del posto. Ma vedevo che quei bambini avevano sete di ben altro, una cosa più profonda di un desiderio materiale. 

Il quadro da offrire loro non era quello di un aiuto momentaneo, bisognava che la cosa durasse. Mi è stato chiaro molto presto. C’era una dimensione psicologica, amante, spirituale, che è vera solo nella durata. Mi sono detto che era questione di dare la vita. Mi ricordo molto bene di quando una sera ho posto la questione ai due seminaristi che erano partiti in missione con me: pensavo che la loro risposta andasse da sé… Rimasi sorpreso quando dissero di no. Fu lì che capii di avere una chiamata nella chiamata. Avevo la certezza di essere chiamato lì, benché non avessi affatto il profilo adeguato. Il Signore si va a cercare gli strumenti più improbabili e i più inefficaci per metterli ad operare nel proprio campo. 

M. D.: Questa certezza non l’ha mai lasciata? 

p. M. D.: Mai. Non c’è mai stato un dubbio, un rimettere la cosa in discussione. Ci sono momenti difficili, o di scoraggiamento, ma non mi fanno dubitare. 

M. D.: Chi sono i bambini sfortunati di cui si occupa? 

p. M. D.: Mi occupo di profili molto differenti. I bambini di strada sono abusati, maltrattati fisicamente, sessualmente. Ci sono anche bambini che sono stati rifiutati o che sono scappati di casa, e questo avviene sempre per ragioni molto gravi. Accogliamo anche neonati di qualche mese. Ci sono poi bambini abbandonati dalle famiglie a causa dei loro handicap. Oppure alcuni che per il loro handicap si sono persi. La nostra fondazione ha in parallelo un programma per i bambini straccivendoli, che vivono coi loro genitori e lavorano nella discarica di Manila. Vivono nei cassonetti e sopravvivono smistando spazzatura. Con loro abbiamo una relazione affettiva e di equilibrio personale, meno difficile da gestire di quella coi bambini abbandonati dalla famiglia e che sono profondamente feriti interiormente. Ci occupiamo anche dei bambini delle bidonvilles. 

Interveniamo invece per questioni mediche, di nutrizione e di scolarità, mediante formule day-care, ossia centri diurni. Per i bambini abbandonati si tratta di programmi umanamente molto più massicci, perché rimpiazziamo la famiglia per assicurare loro il quotidiano. Infine abbiamo, da poco tempo, un programma veramente recentissimo: si tratta degli anziani che vivono per strada. Nelle Filippine il senso della famiglia è tale che ci si occupa di queste persone anziane, ma la miseria è galoppante, e ci sono sempre più anziani abbandonati. 

M. D.: Lei dice che i bambini che vivono per strada sono come dei morti viventi, con pochissime speranze di vivere a lungo… 

p. M. D.: Sì, i bambini abbandonati per strada sono come dei morti viventi: la loro speranza di vita è assai corta. Lo comprendo non solo esteriormente – la cosa è tanto vera che ci sono bambini che si rifugiano nel cimitero di Manila –, ma soprattutto interiormente. I bambini di strada, rigettati da quelli che dovrebbero mostrare loro l’amore più grande, si convincono di non essere degni di essere amati. Il loro cuore smette di battere, non hanno più il senso della vita – per questo dico che sono dei morti viventi. 

Quando li incontrate, avete l’impressione di vedere degli zombies, dei bambini sotto l’effetto di stupefacenti (cosa che per strada non manca affatto). La strada non rappresenta che pericoli. Alcuni bambini sono vittime di violenze fisiche e di regolamenti di conti. Non c’è alcuna luce in fondo al tunnel. Nessuna porta si apre loro. Non si vive senza amore, il fatto che si tolga loro questa dignità li trasforma in morti viventi. 

M. D.: Non è difficile, convincerli a venire al suo centro? Come li recupera, questi bambini? 

p. M. D.: Penso spesso, in questi casi, al dialogo tra la Volpe e il Piccolo Principe. È il lavoro degli educatori di strada. Oggi sono 200. Tutto il loro lavoro sta nell’addomesticare queste baby-gang di ragazzi di strada, e nel lasciarsi addomesticare da loro. Sono bambini che sono stati traditi dagli adulti, sono in piena disillusione. Maltrattati fisicamente, sessualmente dagli adulti. Dagli adulti si sanno considerati come oggetti, come cose che possono essere utilizzate a piacimento. Allora l’educatore deve riconquistare la loro fiducia. I nostri educatori devono essere presenti per strada ogni giorno e ogni notte, andare a incontrare gruppi di bambini per addomesticarli. È la scommessa della speranza, la scommessa che apre la finestra alla speranza. Ogni bambino è unico. 

M. D.: Ciò richiede un adattamento di caso in caso. Ci sono buchi nell’acqua? 

p. M. D.: Alcuni bambini entrano nella fondazione con facilità. Per altri ci vogliono alcuni anni. Lo dobbiamo accettare. L’apertura fiducia dipende dall’unicità del bambino, della sua persona, delle sue ferite. Gli educatori creano ponti quando comprendono questa unicità. 

M. D.: Perché è così importante comprendere l’unicità del bambino? 

p. M. D.: L’unicità è essenziale: è il punto di partenza. Come dei genitori vedono bene che con bambino la linea educativa resta sì la stessa, ma che bisogna adattarla a ciascuno: è lo stesso per noi. La dimensione di morti viventi ci fa comprendere che la nostra missione è impotente. E questa è una buona notizia: dobbiamo creare un contesto che permetterà al bambino di rimettersi in piedi. Ci vorranno due grandi quadri per creare una resilienza: un’atmosfera amante e la sicurezza perché il bambino si senta amato e protetto. 

Solo che, avendo un cuore che ha smesso di battere, esso avrà bisogno di essere guarito. La nostra missione è creare contesti per cui esso venga guarito. Guarire le ferite dei cuori non è cosa che sappiamo fare. La fondazione è impotente: essa può solo porre le condizioni perché Egli lo faccia: è solo il Signore che sa infiltrarsi nelle ferite dei cuori. È lui che cura quei cuori. Sono 24 anni che vedo bambini arrivare, a centinaia; mi sento completamente impotente davanti a loro, le loro ferite mi oltrepassano. Non ho vissuto neanche un milionesimo di quello che hanno vissuto loro, non sono capace di comprendere la loro sofferenza. Non ho gli strumenti per curare le ferite di un cuore. Curare un corpo sì. Dunque la nostra missione è creare un quadro per lasciar fare a Lui. È la nostra impotenza a guarire che permette a Lui di venire a infiltrarsi. 

M. D.: Che tipo di vita spirituale lei propone loro? 

p. M. D.: In 24 anni di presenza a Manila, la sola cosa che è stata fruttuosa è stata far pregare i bambini. Ci sono momenti di preghiera tutte le sere. È lì che Dio ha l’opportunità di agire. Accadono veri miracoli, gioie autentiche che i bambini più feriti del mondo esprimono: perdoni elargiti, sorrisi ritrovati… tutto questo io non posso farlo. So soltanto che questo è il mistero sbalorditivo che accade tra il Signore e loro. 

M. D.: Lei organizza momenti particolari di preghiera come un’adorazione del Santissimo Sacramento nella discarica pubblica di una grande bidonville…  

p. M. D.: Noi portiamo il Santissimo Sacramento dappertutto. C’è stata, in particolare, un’adorazione assai specifica nella discarica pubblica di una bidonville in mano a una gang. Una mamma che si era associata ad altre madri per organizzarvi un sistema di mutuo aiuto è stata uccisa dal capo di questa gang davanti a tutti. Era di giovedì. Quando la polizia è venuta, la tensione era terribile ed era immensa la tristezza di vedere la nostra impotenza. Il sabato successivo, abbiamo organizzato un’adorazione sul medesimo luogo. Le famiglie erano lì. 

A fronte di tutta quella escalation, al desiderio di vendetta, esse sono venute a rispondere col perdono e con la preghiera. Da quel momento sulla bidonville è scesa la pace. La sola cosa che noi abbiamo fatto è stata di portare il Signore nella sua eucaristia. È lui che ha fatto venire la pace. Io sono un prete che porta Gesù nella spazzatura, e Lui è felice di esserci, fa nel fondo dei cuori un lavoro che mi supera completamente e che non cessa di meravigliarmi. 

M. D.: Lei costeggia degli orrori terribili, eppure dice di vivere nello stupore. Da dove nasce questa meraviglia? 

p. M. D.: Nasce dal guardare quel che vedo davanti a me: miracoli quotidiani. Non morti che si rialzano, ma miracoli ancora più belli – parole di perdono donate, morti-viventi che si rimettono a vivere, volti che si illuminano. Sono i miracoli che contano di più, per Cristo. Rilegga i Vangeli: le guarigioni sono sempre interiori, la guarigione fisica non ne è che il segno. È questo che mi meraviglia. Da dove viene la loro gioia, laddove hanno vissuto le cose peggiori? Potrei parlarne per ore… 

M. D.: Ed eccoci qui, parliamone! Lei dice che ci sono numerosi e grandi momenti di gioia, nel quotidiano, che lei vive coi bambini di cui si occupa. Come spiegare la gioia di questi bambini, che hanno sofferto tanto? 

p. M. D.: La gioia di questi bambini è perfettamente autentica. È magnifica perché si ancora nella sofferenza. Mi spiego: i bambini vivono le cose più terribili, non ci possiamo immaginare degli orrori che loro non conoscano sulla propria pelle. Condividono davvero le sofferenze di Cristo crocifisso. Io credo che ci sia una unione nella sofferenza, di questi bambini, con Cristo, e dunque che se essi condividono tanto intimamente la sua sofferenza sulla croce allora vanno a condividere anche la gioia, la speranza, l’amore di cui Egli è la fonte. Tutti quelli che vengono a trovarci sono meravigliati dalla gioia che regna nei foyers della nostra fondazione. Non siamo noi, noi non facciamo che allestire il contesto. 

Qualche anno fa abbiamo vissuto una prova terribile, con un ragazzo gravemente malato. È morto in ospedale, aveva 12 anni. Sono stato accanto a lui fino agli ultimi istanti – è rimasto cosciente fino alla fine. Un attimo prima di morire mi ha detto: «Padre, ho sete». Ho chiesto al medico se potesse portargli un bicchiere d’acqua. È morto subito dopo. È stato allora che ho notato che quelle erano le ultime parole di Cristo in croce. Esattamente allo stesso modo, io ero come quel soldato che aveva sentito la parola di Cristo, che l’aveva abbeverato con una spugna ma che non aveva compreso quel che Cristo aveva davvero detto. È così simbolico, ciò che vivono questi bambini! Hanno una incredibile sete di amare e di essere amati. Fanno esplodere questa gioia – gioia e sete di amare e di essere amati. 

M. D.: Lei ha raccontato che questi bambini sanno pregare naturalmente, aprendo i loro cuori…  

p. M. D.: Nei tempi di preghiera organizzati con loro, lo si vede subito. Restano ovviamente dei bambini, ma hanno una maniera di conversare con Dio che è meravigliosa. Quando ci si trova faccia a faccia col male, questo male diventa (da adulti) la ragione suprema che spiega perché non si vuole credere in Dio. I bambini vengono a trovarsi a confronto col male peggiore, con lo scandalo più grande: dovrebbero essere i primi a dire che non possono credere in Dio. In 24 anni non ho mai sentito una sola volta la questione di Dio posta da un giovane. Me ne stupivo, i primi anni: com’è che il male non li ha ancora condotti a non credere in Dio? Sapevano meravigliarsi delle piccole cose. La fede è quanto c’è di più evidente. Basta guardare un albero, un fiore, un animale, un sorriso: loro sanno vederlo, hanno ragione. 

Mi hanno guidato a questa riflessione: non si può spiegare il male, è un mistero che ci supera. Bisogna fare un atto di abbandono. E, piuttosto che spiegarlo, bisogna rispondere al male. È una esigenza evangelica. Mediante il perdono, il sorriso, la gioia, la compassione, una presenza per le persone sole, semplicemente dell’amabilità. È la risposta al male. Non c’è neanche un bambino che dubiti di questo. Ecco cosa mi meraviglia. È evidente e naturale, per loro: Dio è lì, un Dio d’amore. Ma ora, bisogna rispondere al male. 

M. D.: Di passaggio in Francia per qualche giorno, che cosa la colpisce maggiormente?  

p. M. D.: Guardando da qui l’attualità e vedendo facce così poco sorridenti e così sospettose, noto che la mancanza di gioia è piuttosto sintomatica. Madre Teresa, all’inizio della sua vita, parlava molto delle bidonvilles; alla fine della sua vita erano le metropoli moderne i posti che descriveva come luoghi di miseria. Vedo in questo il privilegio che ho, essendo al servizio dei più piccoli, di essere immerso in questa gioia che non si trova nei nostri paesi detti civili. 

Vorrei però tornare sulla sete. Se l’amore è sentito in maniera così intensa, nelle bidonvilles e nelle strade di Manila, è perché questi ragazzini hanno una sete fenomenale, come un motore che permette la compassione e l’amore. Qui in Occidente non c’è più questa sete. Vorrei invitare i nostri paesi cosiddetti civili a impregnarsi delle ultime parole di Cristo in croce, per comprendere la sete di Cristo, per ritrovare la nostra sete. Abbiamo soffocato quella sete. Le donne che proclamano di non voler più avere figli in nome di un certo femminismo… Ma c’è per l’uomo e per la donna vocazione più bella che quella di essere genitori? È stata soffocata una sete: non voglio più trasmettere, né condividere. Forse i bambini di Manila ci chiamano – noialtri provenienti dai paesi cosiddetti civili – a ritrovare questa sete? 

M. D.: E lei come fa, per resistere e per restare nell’attitudine di chi ha sempre quella sete? 

p. M. D.: Non ho mai dubbi quanto alla mia vocazione, ma come ho detto ho dei grandi momenti di scoraggiamento. Dei momenti di penombra: ci chiediamo in équipe come riusciremo ad aiutare questo bambino o quella famiglia, quando proprio non si vedono soluzioni. È una prova schiacciante. Il primo sostegno è quello fraterno. Io non sono solo, nelle bidonvilles di Manila. Siamo una squadra di 200 persone: 99% di Filippini, qualche Francese. Persone che si dedicano totalmente e che tutti i giorni si meravigliano, perché vivono una vocazione. Questa dimensione fraterna è importante. E c’è un’altra dimensione, ancora più importante: l’andare a mettersi in ginocchio davanti al tabernacolo. Perché di fatto bisogna prendere coscienza della propria impotenza, della propria inutilità, della reale disperazione cui portano la realtà e la situazione. È lì che il Signore può agire. Non serve la falsa umiltà. È grazie alla mia inefficacia, solo grazie a quella, che il Signore può agire. Ne sono convinto. Quando si è scoraggiati, disorientati, la cosa migliore è inginocchiarsi, riconoscere la monumentale fragilità del tutto. È lì che si manifesta la sua potenza. Se vogliamo prendere le redini, certamente ci lascerà fare, ed è lì che la cosa non funzionerà. Più sono incapace, meno so fare, più farà Lui. È così che funziona, da 24 anni. È il Signore che riaccende il cuore: così vinciamo tutto. 

Abbiamo una ragazza con un leggero handicap mentale, Marissa. Quando era piccola, la sua mamma l’ha abbandonata per le strade di Manila: non poteva occuparsene. Marissa aveva 9 anni. Una delle educatrici è riuscita a ritrovare la madre, qualche settimana fa – dodici anni dopo l’abbandono. Abbiamo organizzato una visita perché la bambina incontrasse la madre, nella bidonville. La madre era in lacrime, al contempo per l’emozione e per la vergogna. Ed è stata Marissa a prenderla tra le braccia e stringersela al petto. È la riedizione del figliol prodigo! La madre ha fatto una cosa innominabile – abbandonare il proprio bambino, c’è poco di peggio che si possa pensare. Ed è stata Marissa a darle il suo perdono: lo ha gridato perché lei si sa amata e degna di essere amata. Lei sa di Cristo sulla croce. «Tu, che mi hai detto che non ero degna di essere amata e di amare, guarda: ti stringo al mio cuore». Siamo testimoni di cose straordinarie, di veri miracoli. 

M. D.: Di passaggio a Parigi, ha tenuto una conferenza sul tema della resilienza e della speranza. Qual è la differenza tra le due cose?  

p. M. D.: La resilienza, termine assai recente, è un pezzo di neolingua. Potrei comprendere la resilienza come un rimbalzo dopo un evento traumatico, una reazione che permetta di far fronte al trauma. Ho però paura che questo fenomeno eclissi le esigenze della speranza. La dinamica non mi soddisfa. I tutor della resilienza che aprono le finestre alla speranza sono una cosa bella, ma ancora troppo orizzontale: è tutto affidato ai mezzi umani. Quello che noi pratichiamo è il contrario, partendo dalla nostra umana impotenza. La speranza è straordinaria: non è la speranza che guarda l’orizzonte, è guardare il cielo! Si basa su una vittoria: l’amore di Cristo che ha vinto. Essa si ancora nella vittoria dell’amore. Se la nostra speranza è fondata nel Cristo, sappiamo ineluttabilmente che essa ci conduce alla vittoria. I bambini che soffrono, sì: vivono cose terribili, ne porteranno le cicatrici fino alla fine della loro vita. Però l’amore ha vinto. 

Abbiamo aperto la finestra della speranza: essa è fondata nell’eternità. L’acquisizione è sicura. Ecco perché la cosa più efficace tra tutte quelle che abbiamo messo su è l’adorazione. Certo, i tutor di resilienza sono presenti un po’ dappertutto, nel nostro centro, ma la sola cosa che apre veramente i bambini alla finestra della speranza è il cuore-a-cuore con Cristo. E questo non faccio che contemplarlo tutti i giorni. Non ci sono parole, davvero: ho paura di tradire la bellezza di quello che i bambini mi trasmettono, non riesco ad esprimere tutta la bellezza di quello che vedo. Dovete venire anche voi a vedere! 

[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio] 

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