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5 santi che caccerei dal Paradiso se fossi Dio

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Catholic Link - published on 24/11/22
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Quanto sappiamo dei peccati che i santi commettevano? Nulla. Eppure, questo ci aiuterebbero a verderli non come immagini irraggiungibili

Quanto sappiamo dei peccati che i santi commettevano? Nulla. Eppure, questo ci aiuterebbero a verderli non come immagini irraggiungibili

di Mauricio Artieda

Non nego che sia bello pensare ai santi come a esseri immacolati la cui vita è stata un’effusione di preghiera, grazia e santa tenerezza. E di fronte a tanta bellezza in genere non avrei alcun problema a omettere qualsiasi commento che possa sottostimare questa bellezza (soprattutto quando parlo con bambini piccoli). Credo però che sia un modo di avvicinarsi ai santi la cui bellezza non solo è apparente, ma può arrivare ad essere pericolosa per la vita cristiana. I santi, come sappiamo, non sono pezzi da museo né figurine collezionabili, ma potenti intercessori e autentici modelli di vita.

Se i santi sono stati queste figure di porcellana brillanti e distanti la cui vita non si è mai macchiata di alcun peccato, che rapporto possono aver con me, un essere in carne e ossa che perde e vince battaglie e spesso deve alzare il viso dopo averlo tenuto affondato nel fango? Come possiamo confidare nell’intercessione o come possiamo considerare un modello di vita chi conosce solo estasi mistiche, atti eroici e gesti di misericordia fantastici?

“Ma i santi sono erano così!”, potrebbe dirmi qualcuno, e sarei totalmente d’accordo. Ma quanto sappiamo dei loro peccati? Quanti romanzi abbiamo letto i cui autori nascondono i tratti più difficili del carattere del santo e addolciscono fino a renderli inoffensivi i loro momenti di dubbio e perfino di ribellione nei confronti di Dio? Credetemi, sono molti! Per questo ho deciso di scrivere un articolo per ripercorrere i peccati dei santi. Non vi spaventate. La mia intenzione non è negare la santità di nessuno, al contrario – voglio spiegare come la santità brilli con più forza e si esprima in tutta la sua autentica bellezza quando nasce, per Grazia di Dio, nel cuore ferito di un uomo vero. Credo che solo così potremo riscoprire l’importanza radicale dell’amicizia con i santi nel nostro cammino verso il cielo.

Per questo utilizzerò la Bibbia (perché lo Spirito Santo è l’unico autore di vite di santi che non addolcisce i suoi personaggi) e uno stile di narrativa teatralizzato e un po’ ironico per rendere più amena la lettura. Nessuno si scandalizzi, per favore.

Ci sono 5 santi nella Bibbia che non sarebbero santi se io fossi Dio. No, Signore! Se mi avessero fatto quello che hanno fatto al nostro Padre celeste sarebbero finiti con un dente rotto e in Purgatorio. Se fossi Dio sarei stato tagliente, chiaro fin dall’inizio: “Se vuoi stare con me ti converti, e da quel momento niente stupidaggini, ok?” Ma niente. La giustizia di Dio non è la mia. Se fosse la mia, il primo a uscire dalla mia lista dei santi sarebbe…

1. Mosè

© wikimedia. commons

Immaginatevi la scena. Dio lo sceglie, lo esorta, gli affida la grande missione di liberare il suo popolo e per quello riversa su di lui un’ingente quantità di grazia. I miracoli sono portentosi: Dio trasforma il Nilo in sangue e apre il Mar Rosso davanti ai suoi occhi. Mosè è stato amico del Signore. Dio ha parlato con lui come non aveva mai parlato con nessuno dai tempi di Adamo, e gli ha perfino rivelato il proprio nome: “Io sono Colui che Sono” (Es 3, 14). Lo fanno gli amici, no?

E cosa gli ha chiesto in cambio? Solo fiducia. E Mosè ha confidato, non posso negarlo. Ma le lamentele del popolo nel deserto lo addoloravano e scalfivano la sua fiducia come la goccia che erode la pietra. Penso a quella notte in cui Mosè ha rimproverato Dio: “Perché hai trattato così male il tuo servo? (…) L’ho forse concepito io tutto questo popolo? O l’ho forse messo al mondo io perché tu mi dica: Pòrtatelo in grembo? (…) Se mi devi trattare così, fammi morire piuttosto” (Numeri 11, 11-15). Trattarlo male, farlo morire? Capisco che non abbia apprezzato il riferimento femminile al grembo, ma offendersi così dopo tutto ciò che Dio aveva fatto per lui non è esagerato? Questo Mosè avrebbe già iniziato a darmi fastidio, ma non è tutto.

Dio lo perdona e lo consola. “Il braccio del Signore è forse raccorciato? Ora vedrai se la parola che ti ho detta si realizzerà o no” (Numeri 11, 23), e fa piovere quaglie fino a lasciare soddisfatto tutto il popolo. La cosa più bella è stata l’alleanza che Dio ha siglato con il suo popolo attraverso Mosè. Un enorme segno del suo amore che avrebbe preparato l’alleanza definitiva e che il nostro profeta ha accolto – diamogli un po’ di credito – con cuore grato e umile. Ma il popolo codardo non ce la faceva più, si era abituato a convivere con le meraviglie di Dio e le sue lamentele rompevano ora come onde contro la fragile roccia del cuore di Mosè… e il nostro “santo” ha finito per cedere di fronte a tanta pressione. Mosè ha dubitato di Dio.

E Dio, com’era ovvio, si è inquietato sul serio e gli ha detto: “Poiché non avete avuto fiducia in me per dar gloria al mio santo nome agli occhi degli Israeliti, voi non introdurrete questa comunità nel paese che io le do” (Numeri 20, 12). Ovviamente Dio poi lo ha perdonato e via dicendo, ma nella mia storia ipotetica, con me come protagonista, il buon Mosè se ne va con la sua sfiducia e la sua codardia da un’altra parte. Non riconoscere la santità di Yahvè davanti a quella marmaglia ingrata… Dio una volta si è perfino esposto per Mosè quando il popolo ha dubitato della legittimità della sua chiamata: “Egli è l’uomo di fiducia in tutta la mia casa. Bocca a bocca parlo con lui, in visione e non con enigmi ed egli guarda l’immagine del Signore” (Numeri 12, 7-8). Questo fa un amico vero… esporsi per l’altro! Mosè si è stancato di farlo, e io, se fossi in Dio, mi sarei stancato di lui. Next!

2. Il re Davide

© visipix.com

Che grand’uomo è stato Davide! Dio lo ha scelto tra 11 fratelli più robusti e capaci di lui per il suo buon cuore. Lo ha consacrato perché facesse grandi cose, e la prima sì che è stata grande – enorme, direi! Ha vinto un duello impossibile contro il guerriero più grande del popolo filisteo, il terribile Golia, atterrandolo con una pietra ben assestata tra gli occhi! Davide confidava molto in Dio, e nostro Signore benediceva ogni suo passo.

Davide era “forte e coraggioso, abile nelle armi, saggio di parole, di bell’aspetto” (1 Sam 16, 18). Non stupisce che con questo curriculum abbia risvegliato la gelosia del re Saul. Ma Dio, che non abbandona mai i propri eletti, lo ha protetto dalla persecuzione di Saul, e dopo una lunga guerra civile lo ha messo sul trono come re di Israele e di Giuda. La gratitudine nei confronti di Dio traboccava nel cuore del nuovo re. Da pastorello di pecore è diventato re di Israele, che storia! È stato tutto magnifico finché…

Dio mio! Perché lo hai fatto, Davide? Il tuo cuore era stato forgiato in battaglia. Eri un uomo integro, vigoroso, padrone di sé; e non solo, eri elegante e potente, potevi conquistare la donna che volevi. Perché hai scelto Betsabea, la moglie di Uria? E non solo hai commesso adulterio con lei, ma hai usato il potere che Dio ti aveva affidato per consumare un peccato maggiore: “Ponete Uria in prima fila, dove più ferve la mischia; poi ritiratevi da lui perché resti colpito e muoia” (2 Sam 11, 15). Sei stato una canaglia! Hai spianato il cammino per sposare Betsabea insanguinandoti le mani e sacrificando la tua amicizia con Dio…

Oh, sì, ti sei pentito! Ma Dio ha dovuto inviarti il profeta Nathan per risvegliare la tua coscienza addormentata. E lì il cuore ti si è sciolto in lacrime vedendo chiaramente il tuo peccato. È vero, non hai accampato scuse, hai digiunato e hai troscorso notti intere per terra, hai supplicato il perdono di Dio e hai perfino scritto un salmo lacerante: “Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo. Non respingermi dalla tua presenza e non privarmi del tuo santo spirito” (Salmo 50).

Beh, ringrazia che io non sia Dio, perché non saresti tornato a vedere né il mio spirito né il mio volto. Dopo tutto quello che Dio ha fatto per te, credi che il tuo peccato si paghi con salmi, digiuni e piagnistei? Dio ha visto qualcosa nel tuo cuore che io non riesco a vedere, perché se fosse stato per me saresti finito su un ring con Uria, Saul e Golia insieme. Quanto avevi ragione quando hai detto: “Cadiamo nelle mani del Signore, perché la sua misericordia è grande, ma che io non cada nelle mani degli uomini!” (2 Sam 24, 14). Sicuramente già intuivi che neanche tu fai parte della mia lista di santi.

3. Il profeta Elia

È un profeta enigmatico. Tutto in lui è forte, a cominciare dal nome: Eli Yahu, che significa “Yahvè è il mio Dio”. Elia appare nella storia di Israele per denunciare gli abusi e le ingiustizie da qualsiasi parte vengano, dalla folla o dai re. E c’era bisogno di coraggio, perché Elia è arrivato in uno dei periodi più duri della storia di Israele: quando le sue dodici tribù, disperse nella terra promessa, hanno dimenticato Yahvè e hanno riempito i propri altari di idoli. Detto questo, credo che non sia ancora chiara la statura dell’uomo di cui stiamo parlando. Vediamo se riesco a spiegarlo meglio nel prossimo paragrafo.

Per dimostrare che Yahvè è l’unico Dio, Elia ha sfidato mezzo migliaio di sacerdoti di Baal (divinità o piccolo idolo dell’epoca) sul monte Carmelo e ha proposto loro quanto segue: “Dateci due giovenchi; essi se ne scelgano uno, lo squartino e lo pongano sulla legna senza appiccarvi il fuoco. Io preparerò l’altro giovenco e lo porrò sulla legna senza appiccarvi il fuoco. Voi invocherete il nome del vostro dio e io invocherò quello del Signore. La divinità che risponderà concedendo il fuoco è Dio!” (cfr. 1 Re 18, 20-40). I sacerdoti hanno accettato la sfida e hanno invocato il proprio dio, ma non è accaduto nulla. Elia ha fatto lo stesso e Yahvè non solo ha arrostito il vitello, ma ha consumato con il suo fuoco “l’olocausto, la legna, le pietre e la cenere” intorno all’animale. Tutti sono rimasti senza parole. Il popolo era impaurito, ma a poco a poco ha levato la voce: “Il Signore è Dio! Il Signore è Dio!” Il popolo era tornato al culto di Yahvè.

Capite meglio di chi stiamo parlando? Immaginate la fiducia che Elia aveva in Yahvè, la sua vicinanza a Dio? Se questo non vi sorprende, vi racconto che la Bibbia non narra la sua morte, ci dice che venne avvolto dalle fiamme e scomparve senza lasciare traccia… Volete di più? Beh, è Elia, insieme a Mosè, ad apparire a Gesù il giorno della trasfigurazione. Pensate! Forse non c’è personaggio della Bibbia la cui santità sia più confermata di quella di quest’uomo… e tuttavia…

Vi è piaciuto quello che è successo durante la sfida con i sacerdoti di Baal? Anche a me, ma alla regina Jezebel non è piaciuto affatto, e ha deciso di liberarsi del nostro profeta. Cosa pensate che abbia fatto Elia? L’ha aspettata e l’ha accolta con un sorriso fiducioso? È andato a cercarla per affrontarla? No! Dice la Bibbia che il nostro temibile profeta, quello che aveva sfidato 500 sacerdoti sul monte Carmelo, “impaurito, si alzò e se ne andò per salvarsi” (1 Re 19, 3) Cosa?!? Sì. Qualcosa di simile a quello che è accaduto a San Matteo quando ha guardato il Signore Gesù – “Egli, lasciando tutto, si alzò e lo seguì” (Lc 5, 28) -, ma al contrario.

Il profeta, mortificato e pieno di vergogna, ha poi camminato errando nel deserto fin quando si è gettato distrutto sotto un ginepro e ha implorato: “Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri”. Questa è la parte in cui Dio si commuove ma io mi irrito; in cui Egli rinnova la forza dei Suoi eletti e io getterei loro in faccia tutta la loro meschinità; in cui Egli conferma la missione dei Suoi santi e io li rimanderei a casa loro con un grande cartello che dice “Perdente”. Mi chiedo: se su sua richiesta Dio era capace di inviare il fuoco dal cielo, perché Elia ha dubitato del Suo potere e del Suo amore di fronte alla persecuzione di Jezebel? Il cuore di un vero santo non può avere questo tipo di dubbi. Neanche Elia va bene per me.

4. Giona

Racconto breve: Ninive era una città pagana, capitale dell’Assiria (molto vicina all’attuale Mosul, nel nord dell’Iraq), e si era allontanata da Dio. Gli eccessi, i furti e l’idolatria erano diventati pane quotidiano, per cui Dio sceglie un uomo per rimediare. Niente di nuovo sotto il sole.

Quello che è invece innovativo è che Dio sceglie un tipo insopportabile e superbo di nome Giona, che per giunta non aveva la benché minima volontà di compiere il mandato divino. Nonostante tutto, Giona si mette in marcia, ma in senso contrario: verso Tarsis! Ovvero, si allontana da Ninive il più possibile pensando che in quel modo Dio lo lascerà in pace. Ma nostro Signore, che non abbandona i suoi eletti, fa sì che alcuni marinai buttino Giona giù dalla barca e un pesce enorme lo porti diretto a Ninive. Faccio una parentesi per dire che io lo avrei gettato fuori dalla barca e basta, ma andiamo avanti…

Una volta a Ninive, Giona si arrende alla volontà di Dio e decide di proclamare un messaggio di conversione. La gente si commuove, fa penitenza e torna alla vera fede. Che successo! Congratulazioni, Giona! Ma non sei contento? No, Signore. Giona non era contento. “Per ciò mi affrettai a fuggire a Tarsis; perché so che tu sei un Dio misericordioso e clemente, longanime, di grande amore e che ti lasci impietosire riguardo al male minacciato. Or dunque, Signore, toglimi la vita, perché meglio è per me morire che vivere!” (Giona 4, 2-3). Giona, quindi, non è fuggito per lo sforzo né per la stanchezza dell’impresa. È fuggito perché non voleva la conversione degli abitanti di Ninive!

Ah, Signore! Quanto sie stato paziente con Giona! Lo hai seguito senza smettere di bussare alla porta del suo cuore fin quando non avesse aperto e avesse compreso il motivo per cui hai pietà dei peccatori e soffri per le loro trasgressioni. È vero, Signore, Isaia aveva ragione: “le vostre vie non sono le mie vie” (cfr. Isaia 55, 8), perché io lo avrei preso a botte finché non avesse imparato a memoria tutti i salmi penitenziali. Per me Giona non è affatto un santo.

5. Geremia

In questo caso Dio ha scelto meglio. Geremia era un giovane distinto di diciannove anni appartenente a una famiglia sacerdotale. Quando Yahvè lo chiama, pensa di essere molto giovane e ha paura perché la sua mancanza di esperienza potevano essere un problema, ma Dio lo conforta: “Và da coloro a cui ti manderò e annunzia ciò che io ti ordinerò. Non temerli, perché io sono con te per proteggerti. (…) Ecco, ti metto le mie parole sulla bocca. Ecco, oggi ti costituisco sopra i popoli e sopra i regni per sradicare e demolire, per distruggere e abbattere, per edificare e piantare” (Geremia 1, 7-10). Questo splendido augurio ha riempito di fiducia il cuore del nostro giovane profeta, e così è iniziata la sua storia di servizio e amicizia con Dio.

Ma Geremia ha incontrato popoli e re meno accoglienti degli abitanti di Ninive. La sua predicazione si è scontrata contro la sordità dei suoi interlocutori, ed è accaduto anche che un re arrivasse al punto di bruciare il libro sul quale Geremia aveva scritto il messaggio che Yahvè gli aveva ispirato. Il nostro profeta ha iniziato a dubitare delle sue capacità e si è sentito fragile e abbandonato. “Potrà forse il ferro spezzare il ferro del settentrione e il bronzo? (…) Perché il mio dolore è senza fine e la mia piaga incurabile non vuol guarire? Tu sei diventato per me un torrente infido, dalle acque incostanti” (Geremia 15, 12. 18). E i rimproveri sono aumentati, sfociando in: “Maledetto il giorno in cui nacqui (…) perché non mi fece morire nel grembo materno; mia madre sarebbe stata la mia tomba” (Geremia 20, 14–17)

Arrivati a questo punto suppongo che possiate prevedere come agisce Dio con questo tipo di insolenze. Sì, perdonando e incoraggiando. Geremia alla fine tornerà alla battaglia e proclamerà la parola di Dio fino a morire lapidato per mano del suo popolo (secondo una tradizione di San Girolamo). Da parte mia, capisco il dolore del profeta, ma arrivare al punto da chiamare Dio “ torrente infido, dalle acque incostanti” mi sembra troppo, così come maledire il giorno della propria nascita, anche se riconosco di provare rispetto per Geremia e che non avrei preferito un profeta senza queste problematiche. Per questo, anche se so che alcuni mi criticheranno, questo signore completa la mia lista dei 5 santi che caccerei dal Paradiso.

Mi sono divertito molto a scrivere questo elenco, ma è il momento di smetterla con il tono teatrale e scherzoso per parlare seriamente della santità. Credo che nella storia di questi cinque profeti – che ovviamente considero grandi santi – ci siano tre elementi molto belli che possono aiutarci a comprendere cos’è la santità.

1. I santi sono esseri umani

Spero che non rimaniate delusi, ma San Giovanni Paolo II, San Massimiliano Kolbe, Padre Pio e compagnia hanno avuto momenti umani come quelli dei nostri profeti. Sono stati fragili, hanno pianto, hanno chiesto perdono, hanno offeso e hanno lottato come ciascuno di noi. La loro intercessione è potente e sono un grande modello per noi perché sanno molto bene cosa significhi essere uomini, peccatori, assillati dalla tentazione e dal demonio. Conoscono anche la bellezza delle battaglie vinte, hanno sentito la rugiada della grazia effondersi sulla loro vita e hanno messo del proprio per cooperare con l’ausilio costante di Dio. Si sono meravigliati di Dio mille volte proprio perché erano uomini, perché hanno visto che l’amore del Signore eccede sempre le nostre aspettative e fa con noi cose che non avremmo mai sperato. Se idealizziamo i santi li disumanizziamo, e se li disumanizziamo rubiamo loro la bellezza della santità.

2. La santità è iniziativa di Dio

Adoro le storie che abbiamo ripercorso perché emerge in modo chiaro come Dio sia il primo motore della santità. Mosè, Giona, Geremia, Davide ed Elia arrivano a un momento della propria vita in cui non ce la fanno più, in cui hanno bisogno di mettersi nelle mani di Dio per poter andare avanti con la missione che il Signore ha affidato a ciascuno. Nella storia dell’umanità è accaduto lo stesso con ogni santo. Tutti hanno cooperato con Dio, ma nessuno si è “fatto santo” da sé. L’amore che Dio ci invita a vivere è possibile, è ovvio, ma solo se sappiamo accogliere la sua grazia e riconoscere che è Lui ad avere l’iniziativa. Se vogliamo essere santi – e tutti noi cristiani dovremmo esserlo –, dobbiamo stare sempre molto attenti a non dimenticare che nella nostra ascesa al cielo è Dio che ha messo la scala. Noi mettiamo la voglia di salire, e a volte perfino in questo riceviamo una spinta da Dio, com’è accaduto ai nostri profeti.

3. La santità inizia quando…

Non so se vi siete resi conto che nelle nostre cinque storie, in qualche momento, i nostri profeti hanno voluto morire. Questo dettaglio, che potrebbe essere interpretato come un drammatismo esagerato, in realtà è una pista molto significativa che prenderò simbolicamente per spiegare un elemento chiave della vita cristiana che inizia ad avvicinarsi alla santità. Lo prenderò in modo simbolico perché ovviamente non credo che i santi abbiano voluto morire in qualche momento della loro vita. Non si tratta di questo, ma di un momento in cui l’uomo riconosce la povertà della propria condizione, l’inutilità dei suoi sforzi, la volubilità delle sue promesse ecc., e sente che con i propri mezzi non è capace di raggiungere l’amore al quale Gesù lo ha chiamato dalla croce. È questo momento di crisi il terreno fertile in cui Dio getta il seme della santità. È in questa morte simbolica a noi stessi che siamo – finalmente! – capaci di iniziare la vera ascesa verso il cielo.

Se sono sicuro di qualcosa nella mia breve esperienza di vita cristiana è che Dio cerca questo momento nella nostra vita. Per ciascuno arriva in modo diverso. Alcuni beati lo raggiungono con grande naturalezza, altri soffrono moltissimo. Non so quale sia il cammino che avete percorso fino a questo momento, ma sono convinto che ogni santo, come i nostri profeti, sia arrivato a quel giorno in cui ha capito che per amare come Cristo bisogna amare con il cuore di Cristo. E che questo non è un bel simbolo. No! È Cristo stesso che deve darci davvero il suo cuore, è a Lui che dobbiamo chiedere una nuova vita, e noi dobbiamo accettare l’avventura preziosa e misteriosa che Egli ci ami nonostante la nostra miseria.

Credo che la santità assomigli a questo. Perdonatemi se sono stato prolisso.

[Traduzione dallo spagnolo a cura di Roberta Sciamplicotti]

 

Qui l’articolo originale pubblicato da Catholic Link

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